La notizia di cronaca del suicidio della bimba di Palermo, avvenuto a seguito di una “challenge” su TikTok, ha riportato alla ribalta l’ormai annoso problema della relazione a dir poco controversa tra minori e la rete.
Lo scalpore suscitato dalla drammatica notizia ha indotto anche il Garante Privacy a prendere provvedimenti, intimando da una parte al social network di dotarsi di misure idonee all’identificazione e verifica dell’età degli utenti, e dall’altro realizzando una campagna di informazione volta a sensibilizzare in primo luogo i genitori sulla opportunità di consentire ai minori di anni 14 l’accesso ai social network solo in presenza degli adulti.
Purtroppo, come spesso capita quando si tratta di fenomeni complessi quali sono quelli attinenti alla rete e alle tecnologie digitali, non esistono soluzioni semplici “tagliate con l’accetta” che permettano di risolvere alla radice i problemi, e il rischio è quello di perseguire rimedi semplicistici che possono creare più problemi di quanti in realtà ne intendano risolvere.
Cercheremo di analizzare quindi i diversi profili problematici della questione, partendo proprio dalle peculiarità che caratterizzano i minori di età nei loro rapporti con la rete.
Social media, tenere lontano dalla portata dei bambini
In primo luogo, occorre sottolineare che i minori attraversano una particolare situazione di fragilità psicologica durante la fase dell’adolescenza.
In questa peculiare fase della propria vita, infatti, i ragazzi sono alla ricerca della loro identità, che avviene principalmente mediante il confronto e la competizione con gli altri.
L’esposizione a modelli malsani può avere quindi effetti nefasti sull’equilibrio psico-fisico degli adolescenti.
Peraltro non è una novità esclusiva dei tempi digitali che gli adolescenti possano essere condizionati negativamente e subire danni permanenti nel tentativo di emulare modelli ed esempi nocivi (basti pensare ad esempio a malattie da disfunzioni dell’alimentazione quali anoressia e bulimia, spesso indotte da modelli di bellezza “innaturali” veicolati anche dai media tradizionali).
È tuttavia un fatto che le tecnologie digitali amplifichino a dismisura tali modelli malsani, sfruttando sia la loro elevata scalabilità che la relativa facilità di condivisione dei contenuti nocivi (basti pensare al fenomeno delle Fake News che sono sempre esistite, ma che grazie ai social media hanno avuto una diffusione mai vista in precedenza…)
Queste caratteristiche peculiari della tecnologia digitale rendono quindi ancora più arduo il compito dei genitori nel sorvegliare l’attività online dei propri figli.
Si fa presto a dire “genitori, sorvegliate i vostri figli online”
La retorica che caratterizza i fantasmagorici “nativi digitali” (locuzione creata ad arte dai media, ma in realtà insussistente in concreto come categoria a sè stante) sembra offrire un comodo alibi a quei genitori distratti, che con la scusa della scarsa dimestichezza con il digitale, possono illudersi di sentirsi a posto con la propria coscienza per la mancata sorveglianza verso i figli.
La realtà dei fatti attesta al contrario che, soprattutto riguardo a device come gli smartphone e relative app, le interfacce hanno raggiunto ormai un tale livello di immediatezza di utilizzo che anche un primate è in grado di utilizzare tali tools e gadgets digitali.
Il vero problema è in realtà legato alla scalabilità e pervasività delle tecnologie digitali, che rendono effimero qualsiasi tentativo di controllo serio da parte dei genitori sull’attività online dei propri figli, a prescindere dalle specifiche competenze informatiche.
Per comprendere meglio i termini del problema, analizziamo come si sono evoluti nel tempo i comportamenti educativi adottati dai genitori e la loro efficacia.
Una volta un genitore poteva invitare (in maniera più o meno assertiva) i propri pargoli a ritirarsi nella loro camera, a meditare sulle marachelle compiute.
In questo modo, oltre all’intento punitivo, mediante il confinamento nella propria camera si cercava di ridurre la frequentazione di “cattive compagnie”.
Oggi, al contrario, un tale comportamento esporrebbe i genitori al rischio di perdere completamente di vista le frequentazioni e le abitudini malsane dei propri figli.
Poichè gran parte della attività sociale dei figli si è spostata online (era già una tendenza in atto in era pre-Covid, ormai conclamata con la pandemia), il genitore che non è in grado di monitorare in tempo reale la presenza online del proprio figlio rischia di rimanere completamente all’oscuro delle sue abitudini e dei comportamenti potenzialmente pericolosi che può assumere.
Dall’altro lato, invitare i genitori a permettere ai minori l’accesso ai social media solo in loro presenza (come sembra suggerire il Garante Privacy) può costituire una misura ragionevole nel caso in cui l’accesso alla rete avvenga per lo più mediante PC o computer portatile (oggetti che per la loro connotazione fisica hanno bisogno di una collocazione spaziale stabile, che facilita la supervisione da parte degli adulti), meno proponibile nel caso in cui l’accesso alla rete avvenga mediante smartphone e tablet (strumenti più facilmente occultabili alla vista e al controllo di genitori e insegnanti…)
In realtà, per risolvere alla radice il problema, si dovrebbe impedire ai minori di possedere uno smartphone personale, ma questo rimedio radicale è reso inapplicabile da una soverchiante “forza della natura”…
L’ansia materna come causa prima della diffusione degli smartphone tra i minori
Le mamme italiane sono comunemente note per essere ansiose nei confronti dei propri figli, e cadono pertanto più facilmente preda della “smania di controllo” reso possibile dalla perenne rintracciabilità dei figli dotati di smartphone.
Questo costituisce uno dei motivi principali per il quale l’eventuale adozione di un provvedimento quale quello proposto dal ministro dell’istruzione francese di vietare l’uso del cellulare a scuola troverebbe da noi la ferma opposizione delle mamme, oltre che degli (in)utili idioti, sempre pronti ad incensare a sproposito le supposte virtù taumaturgiche del digitale, mettendo alla gogna e tacciando di luddismo ogni posizione critica che ponga in questione il sacro totem dell’Innovazione…
Vietare agli studenti di portare a scuola lo smartphone (anzichè limitarsi al semplice divieto “pilatesco” del loro utilizzo in classe) non solo renderebbe sostenibile la misura suggerita dal Garante Privacy, volta a consentire l’accesso dei minori alla rete solo in presenza degli adulti, ma contribuirebbe a ridurre in misura drastica tutti quei fenomeni antisociali quali cyberbullismo, sexting, ecc.
Per le stesse ragioni, la prescrizione imposta dal Garante Privacy ai social network di dotarsi di adeguati sistemi di verifica dell’età degli utenti, oltre a rappresentare la classica foglia di fico dietro la quale si tentano (invano) di nascondere i reali problemi, rischia addirittura di trasformarsi nella proverbiale “cura che è peggiore del male”…
Verificare i contenuti nocivi, prima ancora che l’età degli utenti
Molti si chiedono se sia in concreto possibile verificare con un adeguato grado di affidabilità l’età degli utenti.
La cosa è tecnicamente fattibile, ma comporta livelli di pervasività differenti a seconda del grado di affidabilità che si intende conseguire.
Si va quindi dalle misure di “facciata”, quali form e popup in cui si chiede all’utente, in fase di registrazione o di accesso, di confermare la propria età mediante la spunta di apposite caselle di opzione o mediante click su messaggi di alert, misure evidentemente per nulla efficaci e affidabili ormai, fino all’utilizzo di sistemi di identità digitale, o addirittura l’impiego di algoritmi di Machine Learning per il rilevamento di anomalie (anomaly detection) nei comportamenti degli utenti, che possano mettere in dubbio l’attendibilità dell’età dichiarata.
Tali procedure di verifica, a dispetto deĺla loro apparente semplicità e immediatezza, comportano in realtà tutta una serie di rischi per la sicurezza e la riservatezza degli utenti (specie se minori) legati alla loro complessità di implementazione.
Inoltre, esse implicano l’intervento di più controparti specializzate nella realizzazione del processo di verifica, considerato dal punto di vista logico-applicativo come unitario: di conseguenza, si assiste ad un progressivo ampliamento della superficie di attacco, che cresce più che proporzionalmente all’aumentare del numero degli attori coinvolti nel processo e delle funzioni ad essi assegnate.
Ultimo nell’ordine ma non per importanza, le procedure di verifica dell’età potrebbero essere utilizzate (più o meno legittimamente, come la vicenda Cambridge Analytica ci insegna) dagli stessi social networks e loro partners per targettizzare con ancora maggiore precisione e affidabilità proprio i minori, proponendo loro i contenuti ritenuti più pertinenti, ma non per questo più appropriati (come nel caso delle challenges che mettono a rischio l’incolumità dei ragazzi).
E veniamo quindi alla reale questione nodale del problena: la verifica dei contenuti.
Così come è fattibile tecnicamente il controllo e la verifica dell’età, a maggior ragione è possibile tracciare i contenuti potenzialmente nocivi proposti agli utenti.
Alle tecnologie di content ID (basate essenzialmente sul calcolo di “impronte” dei contenuti utilizzando algoritmi quali il Locality Sensitive Hashing, che consentono di valutare con un certo grado di affidabilità la presenza di somiglianze con contenuti già classificati in precedenza come illeciti) nel corso degli anni si sono affiancate le procedure di verifica basate su algoritmi di Machine Learning e Deep Learning.
Il vero motivo per cui il tracciamento dei contenuti nocivi non viene perseguito risiede pertanto nel business model adottato dai social media, che è viziato da incentivi economici distorti (come abbiamo già avuto modo di chiarire in altra sede: “L’effetto cattura dei social e la sindrome di Stoccolma digitale”, “Sulle Fake News va in onda la commedia dell’ipocrisia”), nascondendosi dietro
il “Mito” della neutralità delle piattaforme digitali…
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